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Calcio

Intervista esclusiva: un caffè in compagnia di Alessandro Birindelli e Claudio Buso. Il calcio giovanile e l’etica sportiva

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Un grazie ad Alessandro Birindelli, allenatore degli Esordienti dell’A.C.Pisa 1908 e a Claudio Buso, allenatore dei Giovanissimi del Casottomarina, per la disponibilità a questa chiacchierata, di fronte a un caffè, per discutere di settore giovanile ed etica nel mondo dello sport. Abbiamo approfittato della presenza dell’ex-giocatore  della Juventus e della Nazionale ospite della trasmissione “Style” (che andrà in onda su Tv9 giovedì 24 aprile alle ore 21,30), condotta da Angela D’Errico e che avrà come argomento proprio “L’etica nel mondo dello sport.

Allora Alessandro, volevo iniziare questa chiacchierata, con te. Il detto “nessuno è profeta in patria”, sembra proprio calzarti a pennello: pisano doc, a Pisa hai giocato un solo anno, il penultimo della tua carriera. Ricordiamo ai nostri lettori che hai fatto tutto il settore giovanile nell’Empoli e proprio con la società azzurra hai bruciato le tappe per arrivare nel calcio che conta. Cinque anni di cui gli ultimi due conditi da due promozioni dirette dalla C1 alla Serie A.  Spalletti ti segnalò a Lippi e così volasti alla Juventus. Che emozioni hai provato giovane quale eri, ritrovarti catapultato dalla conquista della massima serie con una società di provincia ad essere l’oggetto del desiderio di una Società quale la Vecchia Signora?

<< Devo dire che l’impatto è stato pesante, ricco di attesa dal momento in cui ho avuto la notizia al momento effettivo di passare di là, fino a quando sono arrivato ed ho iniziato il lavoro con il gruppo. In quel periodo mi facevo molte domande, tipo:<<Ma sarò all’altezza?>> oppure <<Con quel gruppo là come mi troverò? >>. Comunque  era un gruppo che io vedevo in televisione e che ammiravo, essendo poi un tifoso juventino, chiaramente tutto questo mi portò un’emozione particolare. La stessa famiglia Agnelli, stentavo a crederci e facevo fatica a realizzare. Forse la serenità e la spensieratezza nel primo giorno in bianconero mi hanno portato  ad essere  sereno e tranquilllo. Quell’anno venivo da un campionato vinto con l’Empoli, poi sono partito con la Nazionale per disputare i Giochi del Mediterraneo, che abbiamo vinto, e il giorno dopo mi sono sposato. In pratica, quel periodo è stato così intenso che sono arrivato a Torino senza essermene reso conto>>.

Come sei arrivato, ti sei subito sentito a tuo agio?

<< Sì, a distanza di anni capisco l’importanza del gruppo. Sono arrivato lì dove c’era gente che aveva già vinto la Coppa Campioni, gente affermata, però ripeto, mi hanno fatto sentire da subito uno di loro. Questo, poi, mi ha agevolato sia nell’inserimento che negli allenamenti, oltreché nei rapporti con mister Lippi, il quale mi ha dato l’opportunità di affacciarmi al grande calcio e ha avuto fiducia in me, che ho cercato di ripagare sempre con il massimo impegno. Noi avevamo veramente un grande gruppo, gli altri avevano forse rispetto a noi in quel periodo qualche cosa di più sull’aspetto degli individui, ma dove loro si fermavano, noi riuscivamo a sopperire alle mancanze con uno spirito di gruppo, fatto di grande carattere ed agonismo>>.

Un’esperienza professionale importante. A testimoniarlo sono gli undici anni trascorsi con cinque scudetti, vinti sul campo, di cui due revocati. Uno mai riassegnato, mentre l’altro assegnato all’Inter, quali sensazioni ti porti dentro di quel periodo?

<<Beh, ti senti come derubato di qualcosa, perché come calciatore, di tutto quello che gira intorno a livello societario, non lo percepisci o lo percepisci molto poco. Almeno che tu non abbia un rapporto più stretto con i dirigenti o con l’allenatore. A quei livelli, il ruolo tra calciatore e dirigenti è molto separato, aldilà delle discussioni che riguardano la tua professione, ognuno svolgeva il suo lavoro. Visti tutti i sacrifici che fai per ottenere i risultati, rimane difficile capire tutto quello che è successo e quello che è avvenuto dopo. Rimani interdetto, quasi incredulo, ti viene da chiederti: <<Ma dove ho vissuto io in questo periodo? Io pensavo che il calcio fosse un’altra cosa>>. Comunque, quei titoli lì li abbiamo vinti sul campo e me li sento addosso, come è giusto che se li senta addosso l’Inter quelli vinti successivamente, perché sul campo in quel periodo hanno dimostrato di essere la squadra più forte. Non ti nascondo che questa storia mi ha lasciato l’amaro in bocca, ma io mi sento i cinque titoli perchè sono sicuro di averli vinti sul campo. Dispiace per tutto quello che è venuto fuori, soprattutto perchè viviamo in un periodo dove siamo usciti da Calciopoli, ma poi siamo arrivati a calciatori che vendevano le partite, gente che viveva fuori dai circuiti della regolarità e che andava a falsare le partite>>.

Agli occhi dei tifosi juventini hai il pregio di essere rimasto a disposizione anche nell’anno della Serie B, apportando il tuo contributo per riportare la Juventus in Serie A. Che sensazione si prova al termine di un ciclo importante quale il tuo, quando la società ti comunica che non fai più parte del progetto?

<<Ma sai, è il modo come si dicono certe cose. Io penso di aver portato rispetto a questa società, soprattutto nella professionalità e l’impegno messo quotidianamente in ogni allenamento, in ogni partita. Nei confronti dei miei compagni, di tenere quel gruppo saldo, anche quando tanti campioni se ne andavano e la responsabilità, piano, piano, ricadeva su di te ed altri. Mi è dispiaciuto la non chiarezza dei dirigenti del periodo. Devi sapere che ho rifiutato il rinnovo di contratto nell’anno di Serie B, dicendo che volevo giocare e dimostrare sul campo che meritavo la riconferma. Da quel momento non ne abbiamo più parlato, quindi a me rimane il rammarico della mancanza di chiarezza. Aldilà di questo episodio, resta comunque un grande amore per questa società e i rapporti attuali sono ottimi>>.

A quel punto hai optato per Pisa.

<<Sì, a quel punto mi sono posto una scelta di vita. Il mio più grande desiderio era di giocare nella Juventus e poi terminare la carriera nella squadra della mia città. Oltretutto, l’anno prima il Pisa aveva sfiorato la Serie A contro il Lecce e in quel periodo si fece avanti il direttore sportivo, che era Cinquini, che avevo conosciuto al momento del passaggio alla Juventus, perché lui mi voleva portare a Firenze. Mi disse: <<Qui c’è un progetto serio>>. Effettivamente, c’era Ventura come allenatore, c’era Kutuzov insieme ad altri giocatori importanti e così accettai di giocare nel Pisa>>.

Quindi all’inizio dell’anno eri convinto di aver scelto comunque una buona compagine e mai ti saresti aspettato di ritrovarti agli ultimi cinque minuti del campionato a retrocedere?

<< Alla fine del girone di andata eravamo quarti e mai avremmo potuto pensare a un epilogo così amaro>>.

In quel campionato hai incontrato sia all’andata che al ritorno il Grosseto che ottenne un successo in rimonta per 1-2 all’Arena e al ritorno vinse per 4-1. Da lì, forse, iniziò il tracollo del Pisa.

<<Ricordo ancora nitidamente la partita di Grosseto, con una prima mezz’ora dove giocammo bene ed il Grosseto non ci mise mai in difficoltà. Poi ci fu un tracollo, come era già avvenuto a Modena, dove avanti 2-0 anche lì perdemmo facendoci rimontare. Francamente, un’annata di quelle che non ti sai spiegare come tutto vada per il verso sbagliato. Pensiamo che comunque almeno sei-sette elementi di quella formazione nerazzurra sono finiti a giocare tra Serie A e Serie B.>>

Purtroppo, questo ricorda la situazione che a Grosseto si è verificata lo scorso anno, con una rosa che quest’anno vede addirittura giocatori che hanno fatto la Champions League.

<<Questo è lo strano del calcio>>

Con Bonetti, sei stato vice allenatore dello Zambia e successivamente della Dinamo Bucarest, oltre la parentesi di Pistoia. L’esperienza di allenare all’estero, e in particolare quella che hai fatto in Africa, cosa ti ha dato? Te lo chiedo perché se fossi un allenatore mi affascinerebbe vivere un’esperienza africana.

<<Come affascina te,  a me ha fatto lo stesso effetto quando mi hanno offerto l’opportunità lavorativa. In quel momento avevo veramente bisogno di staccare la spina e poter fare chiarezza su ciò che avrei voluto fare e questa opportunità mi ha consentito di cogliere un’occasione, di conoscere un Paese di cultura diversa, che vive una situazione drammatica. Credimi, lì si tocca la povertà assoluta. Quindi siamo andati là, ci siamo rimboccati le maniche e – secondo me e i miei collaboratori – fatto un buon lavoro. Un’esperienza bellissima, un calcio bellissimo; abbiamo conosciuto persone e dei ragazzi disponibilissimi e ci siamo qualificati per la Coppa d’Africa. Poi ha vinto Hervè Renard perché noi siamo venuti via un mese prima della competizione. Noi eravamo stati allontanati perché avevamo un contratto governativo e non della Federazione, caduto il governo ci hanno sostituito. Comunque, quel successo ce lo sentiamo nostro, perché frutto del lavoro fatto nei due anni precedenti. Un’sperienza, che mi ha comunque permesso di poter fare chiarezza sul mio futuro>>.

Prendo spunto dal tema della trasmissione Style di Tv9: “L’etica nello sport”. Ebbene, riallacciandomi alla tua esperienza in Africa, dove il calcio è diverso e diventa fattore di etica e crescita umana, valori dello sport che forse in Italia si sono po’ persi. È anche per questo che punti molto su questo argomento nell’impegno che metti nell’allenare i giovani?

<<Io questo argomento lo sento forte, perchè è un tassello che ti può aiutare a ripartire nel momento sociale molto difficile che stiamo vivendo come paese. Credo che in questo spaccato del tempo che viviamo, lo sport e nello specifico debba essere per i genitori, un punto di riferimento, insieme ai professori, ma anche dagli educatori sportivi  per la crescita dei propri figli. Lo sport deve essere un canale di supporto insieme alla famiglia e alla scuola per lo sviluppo e la crescita dei nostri ragazzi. Oggi è sempre più ricorrente che le famiglie, non riescano a seguire i propri figli a tempo pieno, per motivi di vario genere, ma devono sapere che nel periodo che i ragazzi sono al campo ad allenarsi, sono seguiti nel migliore dei modi. Il bimbo la strada della crescita, la deve trovare, si con i genitori, ma i genitori devono sapere che quando non ci sono, i ragazzi sono seguiti in un percorso condiviso. Ovviamente a casa propria i genitori educano i figli in una certa maniera con le sue peculiarità. Occorre maggior comunicazione tra le tre figure che accompagnano il percorso di crescita dei ragazzi. Se noi sappiamo che il genitore manca in qualcosa, noi dobbiamo intervenire, dobbiamo assumercene le responsabilità. E’ altresì ovvio che l’educatore deve aver conoscenza, non può essere uno preso da un dopolavoro. Chi vuol fare questo mestiere ha bisogno di avere conoscenza, ha bisogno di fare dei corsi di specializzazione, per poter lavorare con i ragazzi. Non è detto che deve fare il corso a Coverciano, ci sono moltissimi corsi anche a livello provinciale o regionale che comunque possono dare la possibilità a chi ha voglia di prendersi la responsabilità e mettersi in gioco per questi ragazzi>>.

Con noi c’è anche Claudio Buso. In questo periodo avete vissuto esperienze in campo  molto simili. Tu hai ritirato la squadra dal campo per dare un segnale forte ai genitori che dopo aver provato a contenere, proseguivano a tenere un comportamento non consono. Claudio, invece, in un’altra circostanza ha chiesto all’arbitro di sospendere la partita per parlare con i genitori. Questa difficoltà è sempre e soltanto colpa dei genitori o c’è qualche altro anello di congiunzione della catena che manca?

<<Io credo che tutti possiamo fare meglio, proprio tutti. Intendo i genitori, noi educatori, le società, le istituzioni come la Figc, l’Aia ecc. È chiaro che per fare questo tutte queste figure, che lavorano per la crescita dello sport, per la crescita dell’educazione del bambino e dello sport nella vita di tutti i giorni, si devono confrontare per cercare di capirsi meglio. Bisognerebbe riuscire a parlare tutti la stessa lingua, così si potrebbe raggiungere un risultato migliore. Se ognuno rimane chiuso nella propria idea e di quello che è giusto per lui si va poco lontano. Chi non si confronta e non ha voglia di migliorarsi, rimarrà un ignorante>>.

Quindi il rischio è che ci sia chi lavora solo per il successo personale e del resto non gli interessi nulla?

<<Esattamente. Vedi, i casi che sono occorsi a me e Claudio, pur se emblematici, è brutto che possano rimanere fini a se stessi e che muoiano lì. Dunque è importante evitare che ciò accada e per farlo è necessario innescare un meccanismo virtuoso che faccia diventare certi episodi la normalità. Guarda, non perché qualcuno ha sbagliato e noi si deve accusare qualcuno, noi vogliamo far capire che c’è bisogno di un confronto tra tutti i soggetti che dicevo prima>>.

Buso:<<In questo percorso vanno abbattuti i muri di incomunicabilità che esistono tra i vari interlocutori. Il confronto e il dialogo sono l’unica via d’uscita da una situazione che rischia di essere di stallo e questo va a discapito di tutto il sistema. La nostra non è una battaglia personale, ma il nostro auspicio è che il sistema si sappià rigenerare per trovare nuove motivazioni>>.

Prima parlavamo anche del comportamento arbitrale, che, paradossalmente, ha il ruolo più educativo di tutto il sistema, perchè chiude il cerchio del lavoro fatto in allenamento, dell’educazione del ragazzo, del rispetto dell’avversario (che a volte manca). Non è forse un po’ troppo chiuso il mondo arbitrale?

<<Si torna sempre lì: non è che gli arbitri fanno qualcosa di male o non lo fanno perché non lo vogliono fare. Molto probabilmente, per come siamo strutturati, sia a livello di Aia che di Figc, tutti siamo legati a dei regolamenti un pochino obsoleti e rigidi. Quindi, almeno secondo me, anche gli arbitri che dopo tre mesi di corso esclusivo in aula, prettamente teorico, si ritrovano ad arbitrare per la prima volta in una partita di Esordienti o di Giovanissimi, che comunque è pur sempre una partita, che ti porta tensione. Pensiamo anche solo al fatto che non sono abituati a correre seguendo l’azione. Lo hanno sicuramente visto, ma non sanno come lo devono fare. Quindi ,invece di fare le prime partite con un tutor che ti parla da una panchina, secondo me sarebbe meglio sfruttare quei tre mesi con una parte pratica e mandare i corsisti a dirigere partite amichevoli o di allenamento. Così facendo, oltre che poter intervenire interrompendo comunque il gioco, alla fine della partita si potrebbe instaurare un confronto tra l’arbitro, l’allenatore e i giocatori. Questo si potrebbe fare. Tra l’altro ricordo che quando giocavo in Serie B ad Empoli, c’era la regola per cui gli arbitri non potevano arbitrare squadre della stessa regione, quindi che succedeva, che ogni giovedì l’Aia toscana mandava gli arbitri ad arbitrare le partitelle infrasettimanali, in maniera che oltre ai loro test di corsa ed altro, potessero allenarsi stando in campo. Francamente non so perché poi questa pratica sia stata interrotta>>.

Dunque, c’è la necessità di una maggiore comunicazione e collaborazione tra i vari soggetti coinvolti.  Se ci pensi, una decisione arbitrale, anche se sbagliata in assoluta buona fede, può vanificare anche quello che è il lavoro della settimana o addirittura il lavoro di una stagione intera. Basta ricordare che ci sono società che investono, ragazzi e allenatori che profondono sacrifici e questo, a volte, viene mortificato proprio da decisioni arbitrali sbagliate.

<<Ma secondo te, è meglio andare tutti gli anni a mettere una postilla al regolamento per complicare un regolamento agli arbitri, invece che semplificarglielo? Ad esempio: è fallo di mano? È sempre o non lo è mai, ma di esempi ne potremmo fare molti. Guardiamo come hanno complicato la regola del fuorigioco. Sbagliano in A e a volte si discute con la moviola per ore, figuriamoci nei campionati giovanili dove l’arbitro è solo. Quindi, mi posso arrabbiare se l’arbitro non mi fischia un fuorigioco? No, perché spesso non è nella condizione di poterlo vedere neppure lui. In questo momento sono veramente convinto che lo sport a livello giovanile sia importante per i nostri giovani. È un canale per la salvaguardia e l’educazione dei nostri giovani. Se lo sport viene fatto e viene seguito da persone competenti e capaci in ogni ruolo, i ragazzi che vi si affacciano hanno solo dei vantaggi, sotto tutti gli aspetti e crescono con dei valori>>.

Questo indubbiamente comporta che ci sia una dirigenza qualificata che sta dietro all’allenatore, perché ovviamente l’allenatore vede le cose in campo, ma può non conoscere nello specifico anche le situazioni personali di ognuno dei ragazzi.

<<Qui intervengono le diramazioni territoriali dell’istituzione che sono a livello provinciale e regionale e che dovrebbero controllare di più le società, proprio per comprendere meglio come queste lavorano>>.

Quindi il limite di questo lavoro potrebbe essere che nei club più periferici, ma in molti casi anche in realtà più importanti, essendo dei volontari quelli che si occupano delle società, tra queste ultime sono poche quelle che riescono a stanziare  fondi per le risorse umane? Sappiamo tutti che in molti casi sono gli stessi genitori a fare i dirigenti volontari. Insomma, stiamo parlando di una lacuna importante, no?

<<Ti rispondo facendoti un altro esempio: le società professionistiche, invece di andare a pescare a destra e sinistra a prendere i giocatori, fare affiliazione in zona o fuori zona e poi prendere i bimbi a 6-7 anni via dalla loro società di appartenenza, 50 li porti ad esempio a Grosseto, l’anno dopo, però, ne rimandi via 25. Sai che danno hai fatto a questi ragazzi? Enorme. Sai cosa devi fare a queste società affiliate? Migliorare la qualità dei loro allenatori, farli crescere a livello tecnico e dirigenziale. Li devi supportare sotto questi livelli. Il problema è: perché fai l’affiliazione? Perché quella società dà i bimbi migliori a te, che poi ti metti lo stemma della società professionistica che ti affilia, così che da società affiliata puoi chiedere i soldi al genitore. Allora non è più volontariato! Perché voglio che la federazione provinciale o regionale controlli chi fa queste cose, affinché tutelino chi  fa volontariato e ci mette passione, premiando tutti quelli che portano avanti un programma etico sportivo, ma penalizzando tutte quelle società che lo fanno a scopo di lucro. È necessario far sapere al genitore che ci sono due opportunità. Oppure uniamo le due cose: la qualità di un settore professionistico, che è di supporto sul posto, poi a tredici anni, quando il ragazzo ha avuto il suo sviluppo di testa ed è in grado di scegliere e di capire come funzionano le cose e ha mantenuto quelle prospettive che aveva a 7-8 anni, allora lo puoi portare via. Ci sono alcune società che adottano la logica dei grandi numeri, se prendo 150 ragazzi, uno alla fine mi viene fuori, ma gli altri? A mio parere dobbiamo davvero ripensare il modo di fare settore giovanile>>.

Alessandro, alla fine di questa chiacchierata, con te e Claudio Buso, possiamo affermare che questa non è una battaglia personale di due persone, ma piuttosto un modo di intendere lo sport ed il modo di come farlo possibilmente al meglio? D’altronde, la cosa bella di questa doppia vicenda che vi ha visti coinvolti in questi mesi, è che pur venendo da due esperienze calcistiche diverse, siete arrivati ad un punto comune di intendere le cose a dimostrazione che le sensibilità e le attenzioni a quelle che sono i problemi dell’etica sportiva alla fine possono venire da qualsiasi persona. Insomma, ognuno può essere parte di una percorso necessario per riappropriarsi  della normalità.

<<Concordo. Dopo il ritiro della squadra, ho avuto innumerevoli contatti, e porto il mio messaggio in tutte queste società che comunque fanno sì che il progetto di etica sportiva sia veramente al centro dell’attenzione della  loro attività. Da questi contatti  ho colto la voglia di tornare alla normalità>>.

Forse perché oggi il calcio attuale è alla fine?

<<C’è le voglia di rivedere delle persone normali, non di vedere degli esaltati. Purtroppo oggi siamo abituati a vedere comportamenti di persone esaltate, quindi è evidente che quando fai una cosa normale, dai nell’occhio e attiri l’attenzione. La speranza è proprio in questa voglia di normalità. In tal senso, ho detto a Claudio che dobbiamo continuare a lavorare e di stare tranquillo, ché in giro la gente come noi è molta e ha voglia di rimettersi in gioco. Quindi il nostro obiettivo sarà, in primis, io per la mia esperienza e come persona conosciuta, andare da  queste persone per dare coraggio e sostegno affinché la normalità possa riprendersi il posto che le compete>>.

Claudio, un ultimo pensiero?

Buso: <<Devo ringraziare Alessandro, perchè condivido con lui un’esperienza molto bella e ci tengo anche a dire che, alla fine, la soddisfazione più grande per noi è poter vedere uscire dal campo i ragazzi con il sorriso aldilà del risultato acquisito>>.

Ringrazio ancora una volta Alessandro Birindelli e Claudio Buso per il contributo che hanno reso al nostro giornale e ai nostri lettori, sul delicato problema sollevato, con l’auspicio che questa onda di normalità possa diffondersi ulteriormente, in una logica di dibattito e confronto all’interno del mondo dello sport per ottenere risultati migliori.

 

Giornalista pubblicista, per Gs si è occupato principalmente di settore giovanile e ha seguito, come collaboratore, anche la Lega Pro. Ha collaborato, per il calcio, con la testata Dubidoo.it, primo giornale on line per ragazzi ed inoltre ha collaborato con le testate on-line Vivigrossetosport.it, Tuttob.it, PianetaB.com. Ha altresì collaborato col sito ufficiale (usgrosseto1912.it) dell'Us Grosseto ai tempi di Camilli.

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Splendida intervista, complimenti!!

Complimenti, bella intervista.
Un saluto ad Alessandro da Porto Ercole (ti aspettiamo per la rivincita a calcetto)
Giovanni

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